domenica 9 ottobre 2011

Pezzenteria di ritorno


Qualcuno di voi avrà sentito parlare dell'analfabetismo di ritorno, quel fenomeno per il quale persone pur scolarizzate regrediscono culturalmente a causa della pigrizia intellettuale e della mancanza di interessi. A questo problema è facile ovviare, soprattutto oggi che l'accesso alla produzione culturale è facilitato (e reso più accessibile anche economicamente) dalla Rete e dalle pratiche di sharing. 

Ma vi è un altro spauracchio ad attenderci nell'ombra dei vicoli maleodoranti e loschi di questa crisi economica senza fine: la regressione a uno status sociale inferiore a quello delle famiglie in cui siamo nati; la rinuncia al prosciutto crudo; la necessità di praticare altri due o tre fori alla nostra cintura, e vivere in una costante precarietà in appartamenti di periferia condivisi con altri cinque o sei disperati come noi. Ecco cosa intendo per pezzenteria di ritorno.

Io, come credo la maggior parte di voi, ho passato la mia infanzia circondato da un'abbondanza di cose, molte delle quali superflue; ma se Voltaire non s'inganna, il superfluo è qualcosa di assolutamente necessario. Dopo aver speso questa frase da incarto dei cioccolatini, mi spiego.

Io ho sempre avuto un tetto sulla testa, e ho sempre trovato un piatto a tavola, due volte al giorno. A periodi l'ho fatto da me (possedendo le risorse economiche per farlo), più spesso lo hanno fatto per me. Sono andato a scuola, poi all'università, ho frequentato corsi di formazione, tutto nella speranza di ottenere quello che fin da bambino vedevo come un obiettivo che era sacrosanto porsi: la realizzazione professionale ed economica; e, attraverso quella, la realizzazione di altre aspirazioni, più profonde, ma che devono necessariamente poggiare sulla solidità di un reddito più o meno costante e minimamente adeguato. 

Mentre crescevo, il mondo si è trasformato. Attraverso operazioni propagandistiche e mediatiche da quattro soldi (ma più che sufficienti a convincere masse prive di informazione e consapevolezza) si è sdoganata l'idea che l'economia debba essere lasciata libera di funzionare senza interferenze, di arrivare ai suoi verdetti senza che questi vengano messi in discussione, perchè i mercati non possono sbagliare. Nel post precedente parlavo del compromesso vittoriano; mi pare che si stia ritornando a una concezione simile del vivere sociale. Molto, se non tutto, è sacrificabile in nome di uno sviluppo grottescamente asimmetrico.

Una delle prime cose ad essere sacrificate è stato il diritto al lavoro. Per un lungo periodo nella storia del capitalismo, era comunemente accettata l'idea che fosse necessario mantenere livelli accettabili di occupazione, se non altro perchè i lavoratori sono anche consumatori, e se non hanno denaro da spendere ciò che producono non potrà essere venduto. Oggi sembra che si stia prendendo una direzione diversa: il capitale non chiede più semplici consumatori, ma debitori, vacche da mungere, limoni da spremere. Come possa evolversi una dinamica di questo tipo a me personalmente sembra ovvio, ma la politica è ormai paralizzata, e la società civile è stanca, sì, incazzata, sì, ma non matura per superare questo sistema, che ormai dimostra in modo palese di non essere in grado di generare un qualsivoglia ordine che sia degno di tale nome. Del resto come meravigliarsi, se un sistema basato sull'avidità e la sopraffazione produce miserie e squilibri?

Scusate la digressione, torniamo al nostro pezzente di ritorno. Istruito, umanizzato dal suo percorso formativo (perchè uomini, a differenza che signori, non si nasce ma si diventa), si affaccia al mondo con le sue aspirazioni, i suoi bisogni, e i suoi sogni. Un fardello che ha accumulato con tempo e fatica, e al quale non rinuncia facilmente; perchè, inutile che mi diate dello snob, sa bene che il Grande Fratello, Vasco Rossi, il gossip e tutto ciò che riempie il tempo e le vite dell'italiano medio sono come gli stronzi di Carnevale: sono cacca, e per giunta fasulla. 


Ma dove si avvia questo povero fesso? I soldi non te li danno certo per la tua umanità, la tua cultura, la tua simpatia (nel senso greco della parola) nei confronti del prossimo. Te li danno nella misura in cui sei utile a determinati rapporti di produzione e distribuzione della ricchezza. E, da quel punto di vista, la tua situazione è adeguatamente espressa dall'immagine di cui sopra. Il mondo, sempre per non distaccarsi da questa tanto bella metafora, è degli stronzi.

Pazienza, mi direte. Trovati una stanza in qualche fatiscente baracca e accetta la tua condizione. Eh, no. Non è così facile. Perchè non è solo al prosciutto crudo che devi rinunciare. Devi rinunciare alla possibilità di tenere insieme le fila della tua vita. Devi assistere impotente alla diaspora di amici e conoscenti, colpevoli solo di un "peccato di latitudine". Devi subire la precarietà non solo del tuo lavoro e del tuo salario, ma delle relazioni umane che sono inevitabilmente condizionate dai rapporti economici. Devi subire lo scippo di ogni potere su te stesso, se non quello di una irriducibile quanto inane libertà di pensiero. Sei come lo schiavo nelle proverbiali piantagioni di cotone prima della Guerra Civile Americana: cantatelo quanto vuoi, questo blues che è la tua dimensione interiore. Alla fine non è che la colonna sonora della tua cattività. Non vedrai mai Miss Liza, nè il Mississipi...

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