mercoledì 30 dicembre 2015

Partire dal traguardo

Cari amici, da un po' non scrivevo. Poiché l'anno sta per finire, credo sia importante apporre il mio suggello di orrore a questo 2015 che, come già il suo predecessore e come sarà certamente per il suo successore, ha fatto schifo. Ormai non è più lecito aspettarsi del bene dalla vita, e sapete perché? Perché la vita è finita. Siamo zombie che si aggirano in un deserto morale e intellettuale, in cui gli impietosi sacerdoti del potere si sono impadroniti di tutto quanto è ancora fertile e fonte di nutrimento. E, stando così le cose, ci imboccano sotto mentite spoglie cucchiaiate di omogeneizzato, per farci rimanere nello stato infantile nel quale, palesemente, ci troviamo.

Poco fa leggevo su Facebook un commento fatto da un amico appartenente a quella nutrita schiera di militanti della sinistra salvinofoba e politically correct. Era un augurio al contrario fatto a chi non accoglie a braccia aperte, senza condizioni né remore, tutti coloro che intendano stabilirsi in questo paese, a prescindere da qualsiasi considerazione di carattere socio-economico, in base a cui si rischierebbe di dover concludere che la solidarietà non è solo un valore astratto, ma una prassi condizionata da molti fattori. Suppongo che queste esitazioni ad aprire il mio cuore e il mio conto Bancoposta (la scelta dei campioni!) a chi soffre mi collochino ipso facto nella schiera dei gretti piccolo-borghesi fascio-leghisti contro cui un esercito di polacchine indignate protesta a gran voce, intonando all'unisono un canto ricolmo di amore per l'Umanità e fair play
Un feticcio piccolo-boghese e fascio-leghista: la carta Bancoposta

A me piace il pensiero laterale. Quando vedo Peppone e Don Camillo affrontarsi nella piazza del paese, penso immediatamente che ci debba essere una terza opzione. Sarà che non ho la struttura fisica per fare a cazzotti. Sarà anche, magari, che le esperienze fatte mi stimolano a modificare il modo di vedere la realtà, man mano che le pecche e le inadeguatezze della mia ideologia vengono a galla. Dopo un anno e mezzo vissuto nel centro storico di Genova, non sono più disposto a tollerare discorsi retorici sul tema dell'immigrazione. Salvini ha torto, e le polacchine hanno torto, perché né Salvini né le polacchine sono in grado di dare ragione della complessità che ho avuto modo di constatare in prima persona in un luogo in cui gli immigrati, in gran parte irregolari, costituiscono una fetta consistente della popolazione.

Ma, e veniamo al punto, se il mio pensiero si modifica, si evolve, se le mie prospettive cambiano, è perché io cerco un punto di partenza, non di arrivo. L'identità filosofico-politica è, per come la vedo io, un affaccio sul mondo, non una cartolina o un poster; perché quando il mio viaggio mi porta in quegli stessi luoghi e me li mostra diversi dall'iconografia imperante, alla quale è considerata quasi una caduta di stile opporre un "ma in realtà", io non mi sento di nascondere la verità dietro la cartolina. Io so che il traguardo non è la costruzione del mio io, ma di un mondo decente. Dice, e allora la tua identità? Ah, che bello aver confessato al mondo di essere un fesso! Auguri di un felice 2016 a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici, che abbiano un lavoro o che lo debbano ancora trovare. Con gli altri, io non ho niente da spartire.

martedì 1 dicembre 2015

Casa



Ho scoperto tardi il rugby, avevo già trent'anni. Uno dei primi ricordi che ho del Sei Nazioni è lo stadio di Murrayfield che canta Flower of Scotland, inno non ufficiale della Scozia. Questa canzone celebra la battaglia di Bannockburn, in cui gli scozzesi, guidati dal leggendario Robert Bruce, si guadagnarono sul campo il diritto all'indipendenza dall'Inghilterra. Ho un ricordo indelebile di quel momento: ottantamila persone la cantavano perfettamente all'unisono, senza sbagliare le parole, man, woman and child, come direbbero a Orta di Atella. 

In quinta stiamo affrontando il Modernismo, in particolare Joyce e la Woolf. Costoro, come saprete (e se non lo sapete ve lo dice lo zio Bradipo), saltavano di palo in frasca. Apparentemente. Io, nel mio piccolo, faccio lo stesso.

Oggi sono andato a vedere un appartamento, in quanto presto lascerò l'anfratto che ho in affitto (l'allitterazione è voluta, perbacco!) in quel meraviglioso letamaio che è Piazza San Luca, nel centro storico di Genova. Appena tornato dalla ordinaria via Canevari nel mio oscuro budello, sono stato preso da una ineffabile tristezza, degna quanto meno di una signora Dalloway, se non di un Leopold Bloom. Appena salito a casa, ho avuto modo di udire la melodiosa e sonora voce del solito balordo. E questo ha scatenato nel mio subconscio qualcosa.

Il concetto di casa è complesso. Io sono andato a vedere quattro mura in cui dormire, mangiare e preparare le lezioni o correggere le verifiche. Ma una casa è molto, molto di più. Senza una casa comune, siamo tutti stranieri a noi stessi e al nostro prossimo. Ancora più stranieri del malnato che ha innescato, con il suo sgraziato e probabilmente adirato gridare in arabo, la mia joycianissima epifania. 

Un dì, se non andremo sempre fuggendo, parafasando Gigione (era Gigione, vero?), troveremo anche noi una patria, calpestata e mal ridotta, ma miracolosamente viva. Non un coacervo di retorica e xenofobia, ma una casa da abitare insieme, da buoni vicini. Scavando scavando, forse anche noi ritroveremo il fiore sepolto nel fango del nostro essere italiani, e impareremo a cantare all'unisono di come ci siamo finalmente ritrovati in una casa bellissima, accogliente e pulita.